Viviamo in un’epoca in cui “seguire la propria passione” è diventato un mantra ossessivo. Ce lo sussurrano i guru motivazionali, ce lo gridano i post virali su LinkedIn, ce lo predicano le startup fondate sull’entusiasmo più che sulla competenza. Fai ciò che ami, e non lavorerai un solo giorno della tua vita.
Eppure, dietro questa promessa apparentemente innocua si nasconde una trappola esistenziale e culturale più profonda di quanto sembri.
Il lavoro, da via di emancipazione collettiva, è stato trasformato in un’ossessione individuale. Non basta più lavorare bene: oggi bisogna amarlo, essere ispirati, realizzati. E se non lo siamo, la colpa è nostra. Ma cosa succede quando questa ideologia entra in crisi? Cosa accade quando la passione si spegne o, semplicemente, non è mai esistita?
Scott Galloway ha detto qualcosa che dovrebbe farci riflettere: People who speak at universities, especially at commencement, who tell you to follow your passion — or my favorite, to ‘never give up’ — are already rich. Il motivo è semplice ma scomodo: chi può permettersi di inseguire la propria passione è già in una posizione privilegiata. Possiede capitale economico, culturale o sociale. Per tutti gli altri, il lavoro resta una necessità, non una scelta romantica.
Questa osservazione, pur tagliente, tocca un nodo filosofico antico: la libertà è una funzione del tempo e delle risorse. Aristotele diceva che solo chi è libero da bisogni materiali può praticare la scholè, l’ozio creativo, lo spazio della contemplazione. Il mito moderno della passione democratizzata nasconde questa verità antica: l’accesso al lavoro “ispirato” è sempre stato prerogativa di pochi.
Il paradosso è che mentre celebriamo la libertà di scelta, creiamo una nuova forma di oppressione: quella di dover sempre scegliere con entusiasmo.
Il culto della passione nasce da un’interpretazione distorta del concetto di realizzazione personale. Da Marx in poi, il lavoro è stato inteso anche come espressione di sé, ma nel capitalismo avanzato questa idea si è trasformata in una caricatura: se non ti senti realizzato, è colpa tua.
Nietzsche denunciava la menzogna romantica del lavoro vocazionale: nessuno nasce con un destino scritto. Il senso si costruisce, non si scopre. E spesso si costruisce nel confronto duro con la realtà, nel limite, nell’attrito. Non nell’estasi della scoperta, ma nella pazienza della ripetizione.
Anche Albert Camus ci ricorda che non sempre la vita ha un senso evidente, ma che è possibile vivere con dignità proprio accettando l’assurdo, rifiutando illusioni consolatorie. Il lavoro, allora, può diventare una forma di resistenza lucida, un esercizio quotidiano di presenza e responsabilità, anche nell’assurdità del sistema.
Immaginate Sisifo mentre spinge la roccia: non è la passione per la roccia che lo rende dignitoso, ma la presenza totale nel gesto. La sua grandezza non sta nell’amare il suo compito, ma nell’abitarlo completamente.
Angela Duckworth, con il concetto di grit, rafforza questa idea: Without effort, your talent is nothing more than unmet potential. Without effort, your skill is nothing more than what you could have done but didn’t. La tenacia nell’impegno conta più del talento o della passione iniziale.
Qui siamo in un territorio vicino a quello dei filosofi antichi: la virtù come abitudine, come ethos, non come scintilla interiore. Per Aristotele, diventiamo giusti agendo con giustizia, non perché lo sentiamo. La trasformazione è pratica, non mistica. È il fare a cambiare l’essere.
Questo ci porta a una riflessione più profonda: forse la passione non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo. Non cerchiamo lavori che amiamo, ma impariamo ad amare il lavoro che facciamo bene.
La filosofia contemporanea ha portato questa riflessione ancora più in profondità. Michel Foucault ha mostrato come, nelle società moderne, il potere si eserciti soprattutto attraverso la normalizzazione dei desideri. Non ci viene più imposto cosa fare: ci viene chiesto di volerlo. Il comando non è più esterno, ma interiorizzato: “devi trovare la tua vocazione, esprimere il tuo potenziale, amarti nel tuo lavoro”. Il soggetto ideale del neoliberismo non è più l’operaio sottomesso, ma l’imprenditore di se stesso, motivato, performante, autorealizzante.
Byung-Chul Han parla di “violenza della positività”: ci esauriamo nella pressione a essere sempre motivati, produttivi, appassionati. L’assenza di entusiasmo diventa quasi una colpa morale. Abbiamo interiorizzato il controllore. Ma forse la vera libertà sta proprio nel sottrarsi a questa imposizione emotiva. Nel riconoscere che il senso non deve essere continuo, e che l’autenticità può emergere anche nel silenzio, nella ripetizione, nel “fare bene ciò che va fatto”.
Questa dinamica si manifesta con particolare chiarezza nel campo dell’educazione creativa. Come docente universitario di Design, mi trovo spesso a confrontarmi con studenti paralizzati dall’ansia di dover produrre continuamente l’idea geniale, l’intuizione rivoluzionaria che li distingua e li realizzi. È qui che diventa evidente quanto profondamente abbiano interiorizzato la logica dell’autorealizzazione creativa: ogni progetto deve essere un’epifania personale, ogni soluzione deve portare il marchio della loro unicità espressiva.
Contro questa tirannia della creatività permanente, propongo una pedagogia apparentemente controintuitiva: concentrarsi prima di tutto sulla competenza tecnica. Dico ai miei studenti di non farsi prendere dall’ansia dell’originalità a tutti i costi, ma di puntare innanzitutto a realizzare un lavoro tecnicamente inattaccabile. Non si tratta di accontentarsi o di rinunciare all’innovazione, ma di ribaltare la gerarchia tradizionale che subordina la maestria alla creatività.
Questo approccio rappresenta una forma sottile ma radicale di resistenza al regime neoliberista dell’autenticità imposta. Quando uno studente si concentra sulla solidità costruttiva del progetto, sulla comprensione profonda dei materiali e dei processi, sulla risoluzione efficace dei problemi funzionali, si sottrae alla pressione di dover essere continuamente ispirato. Trova una dignità nel fare che prescinde dall’entusiasmo emotivo e dall’autorealizzazione personale.
La competenza tecnica diventa così uno spazio di libertà. È un terreno neutro dove il soggetto può sviluppare padronanza senza dover giustificare ogni gesto attraverso la narrazione della passione o della vocazione. Lo studente impara che si può arrivare ad amare ciò che si sa fare davvero bene, anche se inizialmente non ci emozionava. Scopre che l’eccellenza tecnica ha una soddisfazione propria, indipendente dal carisma dell’idea o dall’autenticità del processo creativo.
Paradossalmente, è spesso proprio da questa base di competenza consolidata che emergono le vere innovazioni. L’idea geniale non nasce dal vuoto dell’ispirazione, ma dalla profonda conoscenza dei vincoli e delle possibilità del mezzo, e soprattutto da una solida cultura progettuale e visiva. La creatività autentica è sempre il frutto di uno studio approfondito: aver analizzato migliaia di progetti, aver compreso le ragioni storiche e funzionali delle soluzioni esistenti, aver valutato sistematicamente tutte le possibilità progettuali. La cultura, in questo senso, è alla base di qualsiasi progetto che voglia definirsi di qualità.
Quando lo studente ha costruito questo patrimonio culturale, quando padroneggia davvero gli strumenti del mestiere e conosce intimamente i materiali e i processi, allora può permettersi di sperimentare con cognizione di causa. Ma la sua sperimentazione non è cieca: è informata dalla conoscenza di ciò che è già stato tentato, dalle ragioni per cui certe soluzioni hanno funzionato o fallito, dalla comprensione profonda dei precedenti che gli consente di innovare realmente anziché reinventare inconsapevolmente ciò che già esiste. La creatività diventa allora un effetto collaterale della cultura e della maestria, non il suo obiettivo ossessivo.
Questo ribalta anche il mantra contemporaneo del fai quello che ami: invece di partire dalla passione presunta, si parte dalla competenza costruita. Si insegna una forma di umiltà progettuale che riconosce i vincoli, rispetta le funzioni, accoglie i limiti come opportunità generative piuttosto che come ostacoli all’espressione personale. Il progettista impara a mettersi al servizio del problema da risolvere, anziché usare il progetto come pretesto per esprimere la propria visione del mondo.
In questo senso, l’insegnamento del design può diventare un laboratorio di resistenza alla violenza della positività. Mostra che esiste un’alternativa al soggetto neoliberista sempre motivato e autorealizzante: il professionista competente che trova soddisfazione nel fare bene il proprio lavoro, indipendentemente dal fatto che questo lo realizzi emotivamente. Una figura che sa che l’autenticità può emergere anche nel silenzio della competenza, nella ripetizione della pratica, nella pazienza dell’apprendimento tecnico.
Qui si intravede un ritorno paradossale a una concezione più classica del lavoro, che ricorda la distinzione marxista tra lavoro come mezzo e lavoro come fine in sé. Il lavoro diventa nuovamente uno strumento per realizzare la propria vita. Mentre Marx criticava l’alienazione del lavoro industriale, il neoliberismo ha prodotto una forma opposta ma altrettanto problematica di sovra-identificazione con il lavoro: oggi siamo spinti a fare della nostra attività professionale l’identità totale, a trovare in essa non solo sostentamento ma realizzazione esistenziale completa.
Questa fusione tra vita e lavoro, spacciata come liberazione dall’alienazione, diventa in realtà una forma più sottile e pervasiva di controllo. Il lavoratore “appassionato” lavora più ore dell’operaio alienato, accetta condizioni peggiori in nome della propria crescita, si auto-sfrutta volontariamente perché ha interiorizzato l’imperativo dell’autorealizzazione professionale. La passione diventa il nuovo dispositivo di assoggettamento: non ci viene più imposto di lavorare, ci viene chiesto di amare il nostro lavoro, di identificarci completamente con esso.
Il professionista competente rappresenta quindi una figura di mediazione strategica: non è l’operaio alienato che subisce passivamente il lavoro, ma nemmeno l’imprenditore di se stesso che si dissolve completamente in esso. Mantiene una professionalità che è insieme impegno e distacco: si dedica con serietà alla maestria del proprio mestiere, sviluppa competenze solide, cerca l’eccellenza tecnica, ma senza dover trasformare ogni gesto lavorativo in un atto di espressione autentica del proprio sé.
Questa separazione salutare restituisce al lavoro la sua dimensione strumentale – è ciò che facciamo per costruire le condizioni materiali e simboliche della nostra esistenza – liberando energie e spazi mentali per tutto ciò che la vita comprende oltre il lavoro: relazioni interpersonali, contemplazione, crescita personale che non deve necessariamente tradursi in performance professionale, attività che non producono valore economico ma arricchiscono l’esperienza umana.
Il design, insegnato in questa prospettiva, smette di essere un campo di auto-espressione continua e diventa un mestiere da imparare e praticare con dignità. Lo studente non deve più giustificare ogni scelta progettuale come manifestazione della propria unicità creativa, ma può concentrarsi sull’apprendimento paziente delle tecniche, sulla comprensione dei materiali, sulla risoluzione efficace dei problemi funzionali. Paradossalmente, è proprio questa distanza dal lavoro come autorealizzazione totale che può restituire al lavoro stesso una qualità umana: quella di un’attività svolta bene, con competenza e rispetto per il mestiere, ma che non esaurisce mai completamente l’identità di chi la pratica.
Qui entra in gioco la mindfulness, non come tecnica di ottimizzazione delle performance, ma come forma di resistenza alla tirannia della passione. Quando pratichiamo la presenza mentale, impariamo a distinguere tra ciò che accade e le nostre reazioni emotive a ciò che accade.
Nel lavoro, questo significa imparare a essere pienamente presenti anche quando non siamo ispirati. Significa scoprire che la qualità della nostra attenzione è più importante della qualità delle nostre emozioni. Un medico che salva vite senza particolare entusiasmo è più prezioso di uno appassionato che commette errori per eccitazione.
La mindfulness ci insegna che l’eccellenza emerge dalla presenza, non dalla passione. Quando siamo completamente presenti in ciò che facciamo, anche il compito più routinario può diventare una forma di meditazione in azione.
Prendiamo l’esempio di un artigiano che leviga il legno: non è necessario che ami levigare per farlo con maestria. Quello che conta è la qualità dell’attenzione che porta al gesto, la presenza che abita il movimento della mano, la cura che mette in ogni passaggio.
Il pensiero buddista ci offre un’altra chiave di lettura: il concetto di non-attaccamento (upadana). Non si tratta di indifferenza, ma di impegno senza ossessione per il risultato. Lavoriamo con dedizione, ma senza essere schiavi del nostro investimento emotivo.
Questo è particolarmente rilevante nel mondo del lavoro moderno, dove spesso confondiamo l’identità con l’occupazione. “Io sono quello che faccio” diventa una prigione quando il lavoro non ci gratifica emotivamente. Il non-attaccamento ci permette di dare il meglio di noi senza che il “meglio” sia definito dai nostri stati d’animo.
Un esempio concreto: un insegnante che attraversa periodi di disincanto può comunque essere un eccellente educatore se mantiene la presenza e la cura verso i suoi studenti, indipendentemente dal suo entusiasmo personale. Il servizio verso gli altri diventa più importante della propria realizzazione.
Qui tocchiamo un aspetto spesso trascurato: il lavoro come servizio alla comunità. Molti lavori “ordinari” – dall’operatore ecologico al cassiere, dall’impiegato al tecnico – sono essenziali per il funzionamento della società. La loro dignità non deriva dalla passione di chi li svolge, ma dal loro contributo al bene comune.
Questa prospettiva ci libera dall’narcisismo della realizzazione personale e ci connette a qualcosa di più grande. Il lavoro diventa una forma di interdipendenza consapevole: ogni gesto ben fatto è un dono alla rete di relazioni che ci sostiene.
Durante la pandemia abbiamo scoperto chi sono i “lavoratori essenziali”. Raramente erano persone che “seguivano la loro passione”. Erano semplicemente persone che facevano bene il loro lavoro, con presenza e responsabilità.
Verso una nuova etica del lavoro
Alla fine, la questione non è se il lavoro realizza il tuo sogno infantile. La domanda è un’altra: sei presente in ciò che fai? Lo abiti con integrità, lucidità, rigore?
In un mondo che ci spinge a cercare gratificazioni immediate, forse la vera rivoluzione è riscoprire il valore della disciplina silenziosa. Fare bene ciò che si fa — anche quando non si ama — non è un fallimento. È, al contrario, un atto di resistenza. Una forma di cura. Un gesto etico.
Nel percorso verso la padronanza di sé e la costruzione del proprio mestiere, è utile ricordare una lezione antica e sempre attuale: come diceva Seneca, “La fortuna non esiste: esiste il momento in cui la preparazione incontra l’occasione.” Questo ci ricorda che il successo non è frutto del caso o di un talento innato, ma di un lavoro costante e disciplinato.
La vera domanda, allora, non è “Cosa ti appassiona?” ma “A cosa sei disposto a dedicare la tua attenzione?” Perché alla fine, siamo quello a cui prestiamo attenzione. E l’attenzione, a differenza della passione, è qualcosa che possiamo coltivare, giorno dopo giorno, gesto dopo gesto.
Questa capacità di sostenere l’impegno oltre l’entusiasmo iniziale è ciò che trasforma un compito ripetitivo, magari poco attraente, in un campo di crescita personale e trasformazione interiore. Non è la passione che ci cambia, ma la presenza. Non è l’amore per il lavoro che ci rende liberi, ma la libertà che portiamo al lavoro.
In fondo, la vera maestria non sta nell’amare quello che facciamo, ma nel fare con amore quello che la vita ci presenta.
