Chi vince festeggia, chi perde spiega

jannik sinner

“Tutti vedono la sconfitta — ma non vedono le notti in cui piangeva, i giorni in cui non riusciva nemmeno ad alzare il braccio per la stanchezza.”

simone vagnozzi

Queste parole di Simone Vagnozzi alcuni giorni dopo la sconfitta di Sinner agli US Open 2025 rivelano qualcosa di profondo sulla nostra cultura: l’incapacità di stare semplicemente con una sconfitta, senza doverla vestire di significati, giustificazioni o narrative consolatorie.

Ma perché una sconfitta dovrebbe aver bisogno di essere spiegata?

Sinner ha perso. Punto. In quella frase di tre parole c’è tutto quello che è accaduto. Eppure, immediatamente dopo, scatta il meccanismo della giustificazione: le notti insonni, la stanchezza, la pressione. Come se la realtà della sconfitta fosse troppo cruda, troppo semplice da accettare così com’è.

Questo bisogno compulsivo di aggiungere contesto rivela la nostra profonda resistenza al momento presente. La sconfitta è qui, adesso, concreta. Tutto il resto – la fatica, i sacrifici, le aspettative – appartiene al passato o a una proiezione futura, a dimensioni che esistono solo nella narrazione.

Nel tennis esiste un detto che racchiude una verità scomoda: chi vince festeggia, chi perde spiega. È un’osservazione spietata sulla natura umana, su come gestiamo successo e fallimento.

Quando Vagnozzi parla delle notti di pianto e della stanchezza, non sta solo descrivendo la preparazione di Sinner. Sta facendo esattamente quello che il detto prevede, sta spiegando. Costruendo una narrativa che renda la sconfitta più accettabile, più comprensibile, più giustificata.

Ma perché dovremmo aver bisogno di spiegazioni? La vittoria dell’avversario non ha richiesto giustificazioni – è stata semplicemente celebrata. Perché la sconfitta non può godere della stessa semplice accettazione?

jannik sinner

C’è qualcosa di paradossale nel voler spiegare una sconfitta attraverso la sofferenza dell’atleta. Se Sinner non riusciva nemmeno ad alzare il braccio per la stanchezza, forse la domanda non è perché ha perso, ma perché stava giocando in quello stato; o ancora ma perché ridursi a quello? In fin dei conti è servito? Ma anche questa è una trappola del pensiero analitico. La verità più semplice rimane: ha giocato, ha perso. La stanchezza non è una spiegazione – è solo un altro fatto che è accaduto.

Vorrei proporre un’alternativa, rivoluzionaria (rivoluzionaria soprattutto per me stesso): l’accettazione radicale di ciò che è, senza bisogno di modificarlo attraverso interpretazioni o giustificazioni. Sinner ha perso non perché era stanco, non per la pressione, non per le aspettative del Paese. Ha perso perché in quel momento, su quel campo, l’avversario è stato più forte. Questa non è indifferenza o cinismo. È la libertà di vedere la realtà senza i filtri delle nostre necessità psicologiche.

Interessante notare come lo stesso Sinner, subito dopo la partita, sia caduto in un altro automatismo dicendo devo imparare dalla sconfitta, uscire dalla comfort zone, migliorare alcuni aspetti. È il linguaggio della crescita applicato immediatamente, quasi come un riflesso. Non c’è niente di sbagliato nell’imparare dalle sconfitte – o si vince o si impara è una filosofia potente e vera. Ma c’è una differenza sottile tra l’apprendimento autentico che emerge naturalmente dal processo e l’uso immediato del linguaggio dell’apprendimento come meccanismo per evitare di stare completamente con la sconfitta.

Quando ci diciamo cosa posso imparare da questo?, a volte stiamo saltando un passaggio cruciale, quello di abitare pienamente il momento della sconfitta. L’apprendimento vero, quello che trasforma davvero, spesso arriva dopo aver accettato completamente quello che è successo – non come sostituto di questa accettazione. Perdere può diventare insegnamento, ma prima deve essere permesso che sia semplicemente ciò che è: sconfitta.

Forse il vero coraggio, tanto per gli atleti quanto per noi tutti, starebbe nell’imparare a dire ho perso senza aggiungere il ma, il perché o il quindi ora migliorerò. Senza la necessità di rendere la sconfitta più digeribile attraverso il racconto del sacrificio o della crescita personale. Questo non significa essere insensibili alla fatica o rinunciare al miglioramento. Significa semplicemente non usare questi concetti come scudo contro la nuda verità dei fatti.

C’è qualcosa di paradossale nello sport che raramente consideriamo: è più facile perdere che vincere. Ogni disciplina sportiva è strutturata come una “guerra” con regole chiare – uno vince, l’altro soccombe. Fin da bambini ci insegnano a superare l’avversario, a volte a superare noi stessi. Ma statisticamente, in ogni competizione, ci sono più sconfitti che vincitori.

Ci si allena una vita intera per vincere, ma spesso – molto spesso – si perde. Nessuno si allena per perdere. Forse è proprio per questo che quando succede siamo straniti e cerchiamo giustificazioni? Tutta la preparazione è orientata mentalmente alla vittoria, si studia tecnicamente per superare gli avversari, si analizza ogni dettaglio per battere la concorrenza. Siamo programmati per un evento che è statisticamente l’eccezione, mentre l’evento più probabile – perdere – rimane psicologicamente impensabile.

Quando l’inevitabile accade, scatta automaticamente il bisogno di spiegare perché il sistema non ha funzionato, perché questa volta è andato storto. Ma se perdere è più comune di vincere, perché dovrebbe aver bisogno di giustificazioni? O forse dovremmo stupirci di più delle vittorie che delle sconfitte?

Quando smettiamo di aver bisogno di spiegare ogni risultato, scopriamo qualcosa di liberatorio, la vita diventa più leggera. Non tutto ha un significato profondo, non ogni evento richiede un’interpretazione, non ogni sconfitta nasconde una lezione. Eppure, è complicato. Perché non viviamo nel vuoto; sentiamo addosso – in maniera giustificata o meno – la pressione degli altri. Allenatori che vogliono analisi, media che cercano dichiarazioni, sponsor che si aspettano piani di miglioramento. Non tutti sono pronti a sentirsi dire ho perso, punto. È difficile, certo, in un mondo che chiede costantemente performance narrative oltre che sportive.

Ma a volte una sconfitta è solo una sconfitta. E va bene così.

P.S. Da tennista (scarso), confesso di aver spaccato un sacco di racchette sui campi e, al momento, di aver cercato – spesso tra sconosciuti – qualcuno che giustificasse con me la sconfitta. Il gesto della racchetta rotta è un gesto di frustrazione, prima di tutto contro noi stessi. Non accettiamo il fatto che alcune cose non ci riescano o che l’avversario sia più forte. Questo accade a qualsiasi livello – dal circolo di provincia ai campi del Roland Garros. Forse è più umano di quanto vorremmo ammettere, preferiamo distrarci distruggendo qualcosa piuttosto che accettare che, semplicemente, abbiamo perso.

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